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Corte di Appello di Perugia, sentenza n. 580 del 2 novembre 2022, Pres. Matteini, Rel. Salcerini

L’attore correntista può sempre provare per facta concludentia il fido di fatto, nel quale le rimesse vanno ritenute ripristinatorie; la banca convenuta che difenda la legittimità delle pattuizioni ha l’onere di depositare i contratti; la rimessa su conto corrente attivo non è solutoria

Massime Avv. Dario Nardone

Va imputato a fatto della banca convenuta che non abbia prodotto in giudizio, senza alcun apparente motivo e in difetto di una causa di giustificazione, i contratti di conto corrente relativi ai rapporti in contestazione, l’aver impedito al giudicante di accertare se fosse valida la “causa debendi” dei pagamenti effettuati dal correntista con riferimento alla clausola anatocistica, alla commissione di massimo scoperto, al saggio di interessi e a tutti quanti gli oneri ed accessori applicati e non convenzionalmente previsti, quando il correntista attore abbia eccepito di non aver mai sottoscritto i contratti vanamente chiesti prima del giudizio ex art. 119 TUB – proponendo finanche, nel corso dello stesso, rituale istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c. – e la banca convenuta, affermando l’esistenza di pattuizioni lecite insite all’interno dei contratti, abbia implicitamente riconosciuto sia l’esistenza degli stessi sia di averne la disponibilità (altrimenti non avrebbe potuto disquisirne in ordine al contenuto).

Difatti, a fronte dell’espressa contestazione della validità delle pattuizioni (e delle sottoscrizioni) la banca non può sottrarsi all’onere di produrre tutti i contratti e gli estratti conto integrali dall’inizio del rapporto (in tal senso vedi Cass. 16.4.18 n .9365), al fine precipuo di dimostrare la legittimità delle appostazioni effettuate, essendo pacifico che chi afferma in giudizio – e quindi allega –l’esistenza di un determinato fatto (nella specie: l’esistenza di valide pattuizioni contrattuali), pretendendo di farne derivare delle conseguenze giuridiche a sé favorevoli, non solo ha la convenienza, ma anche l’onere di fornire la prova dell’esistenza di quel fatto, tanto più se ha la piena disponibilità materiale della relativa prova documentale.

In tale contesto, non è condivisibile l’assunto del Giudice di primo grado che esclude l’astratta configurabilità del fido di fatto sulla base della norma (art. 117 TUB) “che impone la forma scritta per ogni rapporto bancario”, in omaggio al filone giurisprudenziale che ritiene requisito imprescindibile per l’esistenza del contratto di apertura di credito la forma scritta (tra le più recenti vedi Corte Appello Venezia n.192/22 e Corte di Appello Torino n.184/21), dovendosi invece affermare, conformemente all’orientamento della Suprema Corte, che il correntista possa provare anche per facta concludentia l’esistenza del fido di fatto (conforme Cass. n.19844 del 20.6.22; Cass. Sez. I 29.1.19 n.2463; principio che si desume a contrariis anche da Cass. Civ. Sez. I 5.1.22): in altri termini, l’esistenza del contratto di apertura di credito non deve essere provato necessariamente con la forma scritta, anche tenuto conto che le nullità in materia bancaria sono “di protezione” e possono essere fatte valere solo dal cliente (art. 127 c.2 TUB).

Pertanto, allorquando il correntista provi l’esistenza di un fido di fatto attraverso tutti gli elementi sintomatici del caso (es.: “tasso fido” e “tasso extrafido”; distinte competenze e la specifica delle clausole come fido ordinario, fido straordinario, scoperto – com’è noto, la previsione di aliquote differenziate costituisce un elemento da cui presumere l’esistenza di un’apertura di credito, e lo stesso dicasi per la previsione di esposizioni debitorie prolungate nel tempo), ne consegue  che il saldo passivo del conto corrente non è indicativo di uno scoperto e che gli accrediti in essi annotati non costituiscano rimesse solutorie come tali prescrittibili nel decennio dalla data delle singole operazioni (conforme Cass. Ord. n.6575/18).

Né è condivisibile la tesi della banca per la quale le rimesse effettuate dal cliente sul conto corrente che presenta un saldo attivo integrino un pagamento (e si debbano quindi considerare come rimesse solutorie): giova a tal uopo rammentare Cass. S.U. n.24418 del 2.12.2010 secondo cui i versamenti in conto, quando il passivo non supera il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungono unicamente “da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere”.

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