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Cass. civ. Sez. III, 27-01-2014, n. 1608

“L’individuabilità della persona offesa o di cui sono stati resi pubblici i dati sensibili, non ne postula l’esplicita indicazione del nominativo, essendo sufficiente che essa possa venire individuata anche per esclusione in via deduttiva, tra una categoria di persone, a nulla rilevando che in concreto tale individuazione avvenga nell’ambito di un ristretto gruppo di soggetti”.

La sentenza della Suprema Corte affronta il delicato argomento del risarcimento del danno morale e/o esistenziale conseguente alla lesione del diritto alla riservatezza.

 

  L’art. 15 del Codice della protezione dei dati personali disciplina il tema della responsabilità civile per i danni procurati dal trattamento di dati personali ricalcando quanto già legiferato dalla Direttiva 95/46/CE la quale, all’art. 23, sancisce che “Gli Stati membri dispongono che chiunque subisca un danno cagionato da un trattamento illecito o da qualsiasi altro atto incompatibile con le disposizioni nazionali di attuazione della presente direttiva abbia il diritto di ottenere il risarcimento del pregiudizio subito dal responsabile del trattamento”; mentre, al 2° comma, sancisce che “il responsabile del trattamento può essere esonerato in tutto o in parte da tale responsabilità se prova che l’evento dannoso non gli è imputabile”.

Pertanto, ai sensi dell’art. 15, chi crede di essere stato danneggiato dal trattamento dei propri dati personali  può chiedere il risarcimento dei danni senza necessità di provare la colpa del titolare che ha trattato i suoi dati. Naturalmente il danneggiato dovrà provare i danni che assume siano derivati dal trattamento dei propri dati.

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