Pubblicato il: 09/10/2025

Rafforzando il principio della certezza del diritto in materia penale e tributaria, la Corte di Cassazione ha indicato condizioni rigorose per l'applicazione della misura cautelare del sequestro preventivo di denaro contante, con particolare riferimento ai reati fallimentari e tributari. Tale misura, per sua natura, è strumentale al procedimento penale e all'accertamento del reato per cui si procede, ma non può essere disposta in maniera automatica o sulla base di semplici sospetti o presunzioni.

Per legge, a richiesta del pubblico ministero, il giudice competente può disporre il sequestro con decreto motivato. La giurisprudenza di legittimità ha tuttavia chiarito che, quando si tratta di denaro in contanti, l'onere della prova si fa particolarmente stringente: non basta il rinvenimento di consistenti somme di denaro per presumere che esse provengano da un reato, ma occorre un collegamento diretto, concreto e documentabile tra i soldi e l'attività illecita contestata.

Secondo i giudici di piazza Cavour, un sequestro di contanti è da ritenersi illegittimo – e va annullato – nei casi pratici in cui:

  • non sia dimostrato in modo preciso il rapporto tra il denaro rinvenuto e il reato contestato;
  • la società coinvolta sia sottoposta a procedura di composizione negoziata della crisi, che garantisce la continuità aziendale ed elimina il periculum in mora;
  • il patrimonio residuo dell'indagato risulti sufficiente a soddisfare i crediti fiscali e le pretese dell'erarioErario[/def].
Emblematica, in tal senso, è – ad esempio – la recente sentenza n. 31274/2025: il caso riguardava un avvocato indagato per bancarotta fraudolenta, al quale erano stati sequestrati circa 78mila euro in contanti, occultati nel bagagliaio dell'auto. Secondo l'accusa, tali somme derivavano da prestazioni professionali fittizie per oltre 400mila euro, pagate da una società poi fallita. Tuttavia, la Cassazione ha annullato il sequestro perché mancava la prova di un nesso immediato tra i bonifici sospetti (risalenti a oltre un anno e mezzo prima) e il denaro fisicamente rinvenuto. Nonostante le modalità di occultamento potessero apparire sospette, il semplice possesso di contanti – anche ingenti – non può, in ogni caso, giustificare da solo la misura cautelare.

Il principio affermato è chiaro: il pubblico ministero deve dimostrare che i soldi sequestrati siano provento diretto del reato contestato, oppure che siano stati utilizzati o movimentati in relazione a condotte illecite. Diversamente, il sequestro di contanti deve essere considerato privo di legittimità.

Sulla stessa linea si colloca una differente pronuncia – la sentenza n. 30109/2025 – in cui la Cassazione ha stabilito che, se un'impresa è ammessa a procedura di composizione negoziata della crisi, i beni aziendali – inclusi i fondi liquidi – non possono essere sottoposti a sequestro preventivo per reati fiscali, in quanto la procedura stessa neutralizza il rischio di dispersione del patrimonio. In quel caso, la Suprema Corte ha ordinato la liberazione di quasi 14 milioni di euro.

In conclusione, la giurisprudenza più recente ribadisce un principio fondamentale: il sequestro di contanti non può fondarsi su presunzioni generiche o sul semplice sospetto derivante dal possesso di somme rilevanti. È necessario un rapporto diretto e dimostrabile tra le banconote e l'attività illecita contestata, così da bilanciare da un lato l'interesse dello Stato a prevenire frodi e a garantire le entrate fiscali, dall'altro il diritto di proprietà di cittadini e imprese a non subire sequestri ingiustificati.


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