Trib. Torino, sent. 11.03.2015, Est. Astuni
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Ora, come la giur. (cfr. Cass. 11.3.1992 n. 2915; Cass. 23.4.1996 n. 3842; tra i giudici di merito vedi App. Torino 3.5.2013 n. 902) ha più volte affermato, se è vero che non si dà apertura di credito se non sussiste un obbligo della banca di mantenere una disponibilità di cassa a favore del cliente, ossia di eseguire operazioni (pagamento assegni, bonifici ecc.) su conto a debito, nondimeno tale obbligo può essere dimostrato non soltanto tramite il documento costitutivo, ma anche per il tramite di prove indirette (quali e/c, riassunti scalari, report di Centrale rischi ecc.) che implicano, in modo univoco, riconoscimento da parte della banca dell’avvenuta concessione del fido.
Cfr. Cass. 11.3.1992 cit.: “il comportamento della banca, consistente nel pagamento di assegni emessi dal cliente senza copertura, può essere valorizzato, in relazione alle circostanze del caso concreto (quali la durata del comportamento stesso e l’entità delle somme pagate), per ravvisare la tacita conclusione di un contratto di apertura di credito, trattandosi di rapporto non soggetto alla forma scritta”.
Questa giur. s’è in prevalenza formata su fattispecie anteriori all’entrata in vigore della legge n. 154/92 e del T.U. bancario, quando non era previsto alcun onere di forma ad substantiam per i contratti bancari in generale, compresa l’apertura di credito e risulta, tuttavia, tuttora applicabile, malgrado l’art. 117 co. 3 T.U. preveda un onere di forma scritta ad substantiam per la conclusione di contratti bancari – a esclusione pertanto, almeno in apparenza, dei facta concludentia – e l’art. 2725 cpv, c.c. preveda che i contratti che devono farsi per iscritto a pena di nullità non possano essere provati per il tramite di documenti di natura ricognitiva o confessoria successivi alla conclusione del contratto (cfr. Cass. 7.10.1982 n. 5148: “la prova di un negozio per cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam non può essere fornita dalla produzione di una scrittura di natura confessoria, neanche ne|l’ipotesi in cui il contratto di cui si confessa l’esistenza sia stato stipulato per iscritto, a meno che non vi sia stata perdita incolpevole del documento stesso”; cfr. ancora tra molte Cass. 9.5.2011 n. 10163; Cass. 19.2.2008 n. 4071).
Per vero, non sussiste a carico del cliente alcuna preclusione, né sul piano della validità, ne conseguentemente su quello della prova. Sul piano della validità, la nullità del contratto bancario amorfo – come in generale le nullità previste dalla norme di trasparenza del T.U. – e nullità c.d. unilaterale, ossia soltanto il cliente può farla valere: così, chiaramente, l’art. 127 co. 2 T.U. Bancario.
A ciò segue che, se il cliente preferisce chiedere l’esecuzione del contratto bancario ancorché amorfo o in ogni caso non ne eccepisce la nullità ex art. 117, il giudice non può rilevarla d’ufficio in deroga alla generale rilevabilità ex art. l421 c.c. della nullità contrattuale. Il testo attualmente vigente dell’art. 117 è, incidentalmente, ancora più chiaro, consentendo bensì la rilevabilità da parte del giudice di una nullità prevista dalle nonne di trasparenza, ma soltanto alla condizione che essa operi “a vantaggio del cliente”, secondo il modello delle c.d. nullità di protezione.
Il piano probatorio è strettamente consequenziale. Se il cliente può chiedere l’esecuzione del centrano bancario amorfo, senza fame valere la nullità, non è evidentemente possibile negargli la possibilità di prova, applicando il limite previsto dall’art. 2725 c.c. per il contratto formale. La questione può essere esaminata anche da|l’angolazione del giudice, ma le conclusioni non mutano: se il giudice, in mancanza di eccezione, non può rilevare la mancanza di forma scritta per dichiarare la nullità del contratto, non può neppure rilevarla per applicare in danno del cliente un limite probatorio previsto per il solo caso dei contratti formali.
In precedenza, vedi Trib. Torino 31.10.2014 (su Il caso).
Nella specie, ai fini della prova indiretta della concessione di fatto dell’affidamento in c/c valgono le seguenti circostanze, già esaminate sopra: a) la stabilità, non occasionalità, dell’esposizione a debito (pluriennale); b) l’entità del saldo debitore, per svariati anni superiore al mezzo miliardo di lire e a cavallo del 2000 ben superiore al miliardo; c) l’assenza di tracce sensibili di un rientro del cliente; anzi si registra una tendenza esattamente contraria, visto che la somma utilizzata cresce col tempo, per effetto di nuovi ripetuti atti di utilizzo (e non quindi della semplice levitazione delle competenze in ragione della loro capitalizzazione in conto); d) l’espresso riconoscimento negli e/c e negli scalari di uno “scoperto nei limiti del fido” e di una “APC fiduciaria”; e) l’applicazione al c/c delle condizioni economiche (misura dei tassi d’interesse) previste negli e/c per lo “scoperto nei limiti del fido” e l’apertura di credito.
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La questione logicamente successiva è a chi spetti provare l’ammontare del fido, al fine di individuare le rimesse solutorie anteriori al decennio che determinano la prescrizione dell’indebito. Ritiene lo scrivente, riprendendo in parte le considerazioni svolte da parte attrice, che l’onere della prova dell’ammontare del fido, ergo dell’esistenza delle rimesse solutorie non possa che competere alla banca.
In primo luogo, secondo la condivisa giur., “in presenza di un fido di fatto… ben può il limite massimo essere individuato nello stesso massimo scoperto di fatto, consentito dalla banca (prima dell’adozione da parte di quest’ultima di qualsivoglia iniziativa di rientro); sicché ogni rimessa intervenuta nel corso di un siffatto rapporto non potrebbe che avere funzione meramente ripristinatoria della provvista” (App. Torino 3.5.2013 n. 902).
Questa giur. si allinea ad altro stabile indirizzo di legittimità che ha più volte affermato che “la predeterminazione del limite massimo della somma accreditabile [recte utilizzabile] non costituisce elemento essenziale della causa del contratto di apertura di credito in conte corrente”, per il quale è sufficiente “la pattuizione di un obbligo della banca di eseguire operazioni di credito bancario passive” (così in motivazione Cass. 21.11.2013 n. 26133; in senso conforme Cass. 23.4.1996 n. 3842).
Possono dunque esistere aperture di credito senza un predeterminato limite di importo. Tali tipicamente sono quelle di fatto, non formalizzate per iscritto, come quelle di cui nella specie si discute. La conclusione, riguardo alla specifica questione che ne occupa, non può che essere quella già indicata, in causa in termini, da App, Torino 3.5.2013 ossia che tutte le rimesse devono intendersi prima facie eseguite a riduzione dell’utilizzato e contenute nei limiti del fido, ergo ripristinatorie, salvo appunto prova specifica di un predeterminato limite di fido.
Questa stessa conclusione è stata di recente riaffermata, muovendo da una premessa in parte diversa, ossia da un canone di normalità contrattuale. Ha rilevato Cass. 26.2.2014 n. 4518 che “i versamenti eseguiti su conto corrente [scilicet affidato] hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens. Tale funzione corrisponde allo schema causale tipico del contratto [scilicet di apertura di credito]” e onera la parte interessata (in genere la banca) di provare l’eccezione alla regola.
La banca censura (repliche pag. 3) questa pronuncia per aver confuso, come riesce peraltro evidente, il conto corrente con l’apertura di credito in c/c che, sola, postula effettivamente una concessione di disponibilità al correntista. L’obiezione cessa di avere ragion d’essere ove si consideri che nel caso deciso dalla Cassazione non era in questione l’esistenza di un’apertura di credito in c/c, ma soltanto l’onere della prova, di modo che il lapsus calami risulta sostanzialmente innocuo, e che nel caso di specie l’apertura di credito è provata.